Gateland-Pier Giorgio Tomatis
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Capitolo VIII
Uno sparo nel buio
Ciò che accadde il giorno seguente fu qualcosa che non dimenticherò mai. Stavo appena rincasando, verso le diciannove e trenta, come faccio sempre il giovedì. Inaspettatamente, vidi comparire un’immagine di John qualche metro davanti a me. L’espressione del suo viso era corrugata e deformata dal terrore. Non l’avevo mai vista così, prima di allora. Fece appena in tempo ad urlarmi di fuggire che udii un colpo d’arma da fuoco e come guidato da un presentimento, dovuto certo all’apparizione di John, mi spostai verso il bordo del marciapiede. Venni raggiunto da un proiettile, il quale mi trafisse sopra il torace assai vicino alla scapola destra.
Avvertii un violento dolore. Caddi in terra, sbattendo la faccia al suolo. Con il sangue che colava dalle narici e dalla ferita alla spalla, rotolai su me stesso per alcuni metri. Un secondo proiettile colpì il cofano di un’automobile. Potei scorgere John che, in piedi sul marciapiede, alzava lo sguardo. Mi stava suggerendo che gli spari provenivano dall'alto, quasi sicuramente dal tetto di fronte.
Con i riflessi annebbiati e un dolore lancinante alla spalla destra, mi mossi cercando di nascondermi. Strisciando per terra, appoggiai la schiena contro la portiera dell’auto che era appena colpita. Avevo le spalle rivolte dalla parte opposta alla direzione da cui presumevo era appostato il mio aggressore. L’immagine di John sparì dalla mia vista.
Presi faticosamente la mia Colt1911 dalla fondina sotto la giacca, all’altezza del cuore e inserii il caricatore. Udii un altro sparo e un nuovo proiettile mi colpì. I vetri dei finestrini dell’auto andarono in frantumi riversando piccole schegge taglienti su tutto il mio corpo. Non me ne preoccupavo più di tanto. Era la nuova ferita al braccio che mi provocava il dolore maggiore.
La terza pallottola sparata dal mio aggressore, infatti, aveva trapassato il tettuccio dell’auto e la portiera colpendomi di striscio sul gomito e non avevo idea di quanto fosse profondo il taglio. Il sangue stava prendendo a flottare. Strinsi i denti, mi tolsi la giacca, arrotolai le maniche della camicia e avvolsi stretto il gomito con un fazzoletto.
Provai a girarmi sul fianco per scorgere qualche particolare in più del mio aggressore. Il dolore mi tolse il respiro. Al secondo tentativo riuscii a spostarmi. Non ero più rannicchiato dietro l’auto in sosta ma pronto a scorgere qualche movimento sospetto, seppur limitato nei miei spostamenti.
Attorno a me, e per almeno un isolato, non c'era anima viva. Solo case e automobili. Mi alzai faticosamente e Dio solo sa quanto mi costò farlo. Corsi verso l'angolo della via più vicino e, protetto da solide mura, cercai di ricuperare le forze e a riprendere fiato. All'improvviso, udii un rumore provenire di fronte a me. Le serrande di un appartamento si alzarono. Puntai l’arma in dotazione in quella direzione pronto a sparare.
Dalla finestra ormai aperta, vidi una donnetta sui quarantacinque anni, con i bigodini in testa, affacciarsi e guardarmi raggelata. Per una frazione di secondo mi misi nei suoi panni. Doveva essere la prima volta che vedeva una persona ferita puntargli contro un’arma da fuoco. Abbassai la Colt, non prestai più attenzione alla donna. Dopo una rapida occhiata voltai l'angolo, con la pistola impugnata con la mano sinistra e corsi verso un'automobile. Mi rannicchiai dietro una portiera. Nessun rumore proveniva dal tetto di fronte. Nemmeno altrove.
Nonostante fossero stati sparati tre colpi di pistola non ci fu alcuna reazione da parte degli abitanti del quartiere. Non potevo fare affidamento che su Madeleine e sperare che uditi gli spari avesse chiamato la polizia. Mi alzai raccogliendo tutta l’energia che mi rimaneva e mi diressi verso il palazzo. Mi appiattii contro la porta. Chiusa a chiave. Non era un problema. La serratura era vecchia, lo stipite marcio. Con un calcio ben dato fui dentro l'edificio. Per fortuna, il mio aggressore non aveva ancora colpito i miei arti inferiori.
Dal mio braccio continuò a colare sangue, la mia vista si annebbiò. Combattei per non perdere conoscenza mentre salii i gradini delle scale a tre a tre. Mancavano solo quattro piani prima di arrivare in cima. Con un altro calcione ben assestato aprii un’altra porta e sfrecciai verso l’interno del buio sottotetto. Mi rannicchiai dietro un pilastro cercando di udire ogni minimo, percettibile suono. Niente. Il silenzio sembrò essere la mia unica compagnia.
Attesi ancora qualche istante, poi ripresi a correre verso la direzione in cui avrei dovuto trovare l'ultima porta. Feci saltare la serratura ed uscii puntando in avanti la mia pistola. Ancora nulla. Nessuna reazione da parte del mio aggressore. Cautamente avanzai verso il bordo del parapetto finché scorsi un fucile disteso in terra nella posizione dove, con ogni probabilità, il cecchino che mi aveva preso di mira era rimasto appostato in attesa del mio arrivo. Era un avvertimento.
Un professionista non avrebbe fallito il bersaglio. Un principiante alle prime armi non avrebbe abbandonato il proprio fucile nel timore di aver lasciato qualche traccia. Arrivai faticosamente sul bordo del tetto e mi distesi accanto al fucile, una carabina Accuracy AWP trecento otto Winchester. Buona arma. Buon tiratore. Freddo e preciso come questo avvertimento. Due minuti dopo udii la sirena di una volante, prima di arrendermi e perdere i sensi. Brava donna... brava la mia Maddie.
I medici lottarono tre giorni per salvarmi la vita. Trascorsi i quali, incominciarono a diventare più ottimisti. Mi dissero, una volta sveglio, che mia moglie Maddie aveva vegliato giorno e notte al capezzale del mio letto. Non stentai a creder loro.
Quando mi ripresi quello di mia moglie fu uno dei due volti che rividi con immenso piacere. Il secondo fu quello della persona che, forse, mi aveva salvato nuovamente la vita. John si mostrò un giorno, fisicamente oltre che nei miei sogni, fuori della porta. Si affacciò nella stanza con un improbabile camice da infermiere, strizzandomi l’occhio. Replicai con un sorriso.
Unica visita inattesa, e assai poco gradita, fu quella di Brendan. Salutò Maddie e mi fissò. Il mio sguardo, l’espres-sione gelida con la quale lo ripagai, gli fornì la certezza che il nostro rapporto fosse definitivamente compromesso. Non po-tevo accusarlo di nulla ma avevo ragionevoli sospetti che ci doveva essere stato un suo contributo alle mie recenti disavventure.
La mia guarigione fu lenta ma continua. John Carter, il mio Capitano, venne all’ospedale per sincerarsi delle mie condizioni e per farsi spiegare l’accaduto. Purtroppo non avevo molto da dirgli. Ero vivo e non sapevo chi mi aveva quasi ucciso. Non sarebbe stato saggio dirgli che sospettavo del mio ex-collega, Brendan Connelly, del suo superiore in Gateland, Paul Weller, del mio collega Colin Doyle, di sua moglie Susan e di sua sorella Katryna Louise Van Horne.
Il vecchio sciamano venne a trovarmi in sogno almeno un paio di volte, raccontandomi qualcosa di più sui luoghi dove si stava nascondendo. Potei così chiarirmi le idee sul motivo per il quale una notte mi misi a parlare di Megaliti e perché parlai in lingue e dialetti di popoli vissuti in tempi e luoghi molto lontani da me.
Mi fu anche molto d’aiuto per cercare di dare un significato alle mie recenti persecuzioni. All’inizio non avevo capito perché qualcuno potesse trarre vantaggio nel drogarmi, tentare di menomarmi o peggio, di uccidermi. La verità era che i miei nemici nutrivano grande interesse per la mia indagine ed manifestavano sempre di più la ferma volontà di bloccarla o depistarla. Chi mi aveva preso di mira sapeva che non avrei mai smesso di cercare gli assassini di John. Per questo era di vitale importanza screditarmi professionalmente o uccidermi.
Quando il mio periodo di degenza terminò, fortunatamente senza scossoni, tornai a casa. Le braccia stavano guarendo bene ma il mio medico mi consigliò di stare ancora a riposo, di non fare sforzi di nessun genere. Ovviamente, tornai sul tetto dove il mio aggressore si era appostato per uccidermi. Volevo verificare se qualche indizio, qualche particolare importante, fosse stato dimenticato o non visto dalla scientifica. Non trovai nulla di rilevante. Il mio aggressore si era dileguato come se non fosse mai esistito. Maddie mi seguì dovunque, per accertarsi che non mi venisse fatto del male e che non mi cacciassi da solo in qualche nuovo guaio.
Per passare il tempo mi incollai al monitor del mio computer di casa. Fu un lunedì sera che John tornò a comunicare con me. Ancora una volta un’icona a forma di lupo cominciò a lampeggiare. Vi cliccai sopra con il mouse e finii per essere indirizzato verso un sito con un ricco archivio di notizie giornalistiche. Tre di queste, in particolare, attirarono la mia attenzione. La prima trattava della sparizione di alcuni fusti di materiale radioattivo recuperato in territorio di guerra dall’esercito e sparito misteriosamente dalla base militare di New Haven. La seconda riguardava la strana morte per polmonite fulminante di un anziano medico di Hartford. La terza era relativa ad una sconcertante catena di decessi di pellirosse a Milwaukee.
Fu allora che mi ricordai degli strani discorsi di John su di un Diavolo e sulla sua mano destra. I tre fatti erano disgiunti gli uni dagli altri, oppure facevano parte dello stesso disegno criminale di una mente diabolica e spietata, pronta ad uccidere chiunque si trovasse ad ostacolarne il cammino? Dopotutto, era esattamente ciò che qualcuno stava facendo con me. Anche i recenti attentati che avevo subito erano da mettere in relazione con queste sparizioni e questi decessi? Ritrovai la piena efficienza fisica proprio in concomitanza con un nuovo susseguirsi di eventi nefasti. Le risposte a queste domande sarebbero arrivate più tardi.
Uno sparo nel buio
Ciò che accadde il giorno seguente fu qualcosa che non dimenticherò mai. Stavo appena rincasando, verso le diciannove e trenta, come faccio sempre il giovedì. Inaspettatamente, vidi comparire un’immagine di John qualche metro davanti a me. L’espressione del suo viso era corrugata e deformata dal terrore. Non l’avevo mai vista così, prima di allora. Fece appena in tempo ad urlarmi di fuggire che udii un colpo d’arma da fuoco e come guidato da un presentimento, dovuto certo all’apparizione di John, mi spostai verso il bordo del marciapiede. Venni raggiunto da un proiettile, il quale mi trafisse sopra il torace assai vicino alla scapola destra.
Avvertii un violento dolore. Caddi in terra, sbattendo la faccia al suolo. Con il sangue che colava dalle narici e dalla ferita alla spalla, rotolai su me stesso per alcuni metri. Un secondo proiettile colpì il cofano di un’automobile. Potei scorgere John che, in piedi sul marciapiede, alzava lo sguardo. Mi stava suggerendo che gli spari provenivano dall'alto, quasi sicuramente dal tetto di fronte.
Con i riflessi annebbiati e un dolore lancinante alla spalla destra, mi mossi cercando di nascondermi. Strisciando per terra, appoggiai la schiena contro la portiera dell’auto che era appena colpita. Avevo le spalle rivolte dalla parte opposta alla direzione da cui presumevo era appostato il mio aggressore. L’immagine di John sparì dalla mia vista.
Presi faticosamente la mia Colt1911 dalla fondina sotto la giacca, all’altezza del cuore e inserii il caricatore. Udii un altro sparo e un nuovo proiettile mi colpì. I vetri dei finestrini dell’auto andarono in frantumi riversando piccole schegge taglienti su tutto il mio corpo. Non me ne preoccupavo più di tanto. Era la nuova ferita al braccio che mi provocava il dolore maggiore.
La terza pallottola sparata dal mio aggressore, infatti, aveva trapassato il tettuccio dell’auto e la portiera colpendomi di striscio sul gomito e non avevo idea di quanto fosse profondo il taglio. Il sangue stava prendendo a flottare. Strinsi i denti, mi tolsi la giacca, arrotolai le maniche della camicia e avvolsi stretto il gomito con un fazzoletto.
Provai a girarmi sul fianco per scorgere qualche particolare in più del mio aggressore. Il dolore mi tolse il respiro. Al secondo tentativo riuscii a spostarmi. Non ero più rannicchiato dietro l’auto in sosta ma pronto a scorgere qualche movimento sospetto, seppur limitato nei miei spostamenti.
Attorno a me, e per almeno un isolato, non c'era anima viva. Solo case e automobili. Mi alzai faticosamente e Dio solo sa quanto mi costò farlo. Corsi verso l'angolo della via più vicino e, protetto da solide mura, cercai di ricuperare le forze e a riprendere fiato. All'improvviso, udii un rumore provenire di fronte a me. Le serrande di un appartamento si alzarono. Puntai l’arma in dotazione in quella direzione pronto a sparare.
Dalla finestra ormai aperta, vidi una donnetta sui quarantacinque anni, con i bigodini in testa, affacciarsi e guardarmi raggelata. Per una frazione di secondo mi misi nei suoi panni. Doveva essere la prima volta che vedeva una persona ferita puntargli contro un’arma da fuoco. Abbassai la Colt, non prestai più attenzione alla donna. Dopo una rapida occhiata voltai l'angolo, con la pistola impugnata con la mano sinistra e corsi verso un'automobile. Mi rannicchiai dietro una portiera. Nessun rumore proveniva dal tetto di fronte. Nemmeno altrove.
Nonostante fossero stati sparati tre colpi di pistola non ci fu alcuna reazione da parte degli abitanti del quartiere. Non potevo fare affidamento che su Madeleine e sperare che uditi gli spari avesse chiamato la polizia. Mi alzai raccogliendo tutta l’energia che mi rimaneva e mi diressi verso il palazzo. Mi appiattii contro la porta. Chiusa a chiave. Non era un problema. La serratura era vecchia, lo stipite marcio. Con un calcio ben dato fui dentro l'edificio. Per fortuna, il mio aggressore non aveva ancora colpito i miei arti inferiori.
Dal mio braccio continuò a colare sangue, la mia vista si annebbiò. Combattei per non perdere conoscenza mentre salii i gradini delle scale a tre a tre. Mancavano solo quattro piani prima di arrivare in cima. Con un altro calcione ben assestato aprii un’altra porta e sfrecciai verso l’interno del buio sottotetto. Mi rannicchiai dietro un pilastro cercando di udire ogni minimo, percettibile suono. Niente. Il silenzio sembrò essere la mia unica compagnia.
Attesi ancora qualche istante, poi ripresi a correre verso la direzione in cui avrei dovuto trovare l'ultima porta. Feci saltare la serratura ed uscii puntando in avanti la mia pistola. Ancora nulla. Nessuna reazione da parte del mio aggressore. Cautamente avanzai verso il bordo del parapetto finché scorsi un fucile disteso in terra nella posizione dove, con ogni probabilità, il cecchino che mi aveva preso di mira era rimasto appostato in attesa del mio arrivo. Era un avvertimento.
Un professionista non avrebbe fallito il bersaglio. Un principiante alle prime armi non avrebbe abbandonato il proprio fucile nel timore di aver lasciato qualche traccia. Arrivai faticosamente sul bordo del tetto e mi distesi accanto al fucile, una carabina Accuracy AWP trecento otto Winchester. Buona arma. Buon tiratore. Freddo e preciso come questo avvertimento. Due minuti dopo udii la sirena di una volante, prima di arrendermi e perdere i sensi. Brava donna... brava la mia Maddie.
I medici lottarono tre giorni per salvarmi la vita. Trascorsi i quali, incominciarono a diventare più ottimisti. Mi dissero, una volta sveglio, che mia moglie Maddie aveva vegliato giorno e notte al capezzale del mio letto. Non stentai a creder loro.
Quando mi ripresi quello di mia moglie fu uno dei due volti che rividi con immenso piacere. Il secondo fu quello della persona che, forse, mi aveva salvato nuovamente la vita. John si mostrò un giorno, fisicamente oltre che nei miei sogni, fuori della porta. Si affacciò nella stanza con un improbabile camice da infermiere, strizzandomi l’occhio. Replicai con un sorriso.
Unica visita inattesa, e assai poco gradita, fu quella di Brendan. Salutò Maddie e mi fissò. Il mio sguardo, l’espres-sione gelida con la quale lo ripagai, gli fornì la certezza che il nostro rapporto fosse definitivamente compromesso. Non po-tevo accusarlo di nulla ma avevo ragionevoli sospetti che ci doveva essere stato un suo contributo alle mie recenti disavventure.
La mia guarigione fu lenta ma continua. John Carter, il mio Capitano, venne all’ospedale per sincerarsi delle mie condizioni e per farsi spiegare l’accaduto. Purtroppo non avevo molto da dirgli. Ero vivo e non sapevo chi mi aveva quasi ucciso. Non sarebbe stato saggio dirgli che sospettavo del mio ex-collega, Brendan Connelly, del suo superiore in Gateland, Paul Weller, del mio collega Colin Doyle, di sua moglie Susan e di sua sorella Katryna Louise Van Horne.
Il vecchio sciamano venne a trovarmi in sogno almeno un paio di volte, raccontandomi qualcosa di più sui luoghi dove si stava nascondendo. Potei così chiarirmi le idee sul motivo per il quale una notte mi misi a parlare di Megaliti e perché parlai in lingue e dialetti di popoli vissuti in tempi e luoghi molto lontani da me.
Mi fu anche molto d’aiuto per cercare di dare un significato alle mie recenti persecuzioni. All’inizio non avevo capito perché qualcuno potesse trarre vantaggio nel drogarmi, tentare di menomarmi o peggio, di uccidermi. La verità era che i miei nemici nutrivano grande interesse per la mia indagine ed manifestavano sempre di più la ferma volontà di bloccarla o depistarla. Chi mi aveva preso di mira sapeva che non avrei mai smesso di cercare gli assassini di John. Per questo era di vitale importanza screditarmi professionalmente o uccidermi.
Quando il mio periodo di degenza terminò, fortunatamente senza scossoni, tornai a casa. Le braccia stavano guarendo bene ma il mio medico mi consigliò di stare ancora a riposo, di non fare sforzi di nessun genere. Ovviamente, tornai sul tetto dove il mio aggressore si era appostato per uccidermi. Volevo verificare se qualche indizio, qualche particolare importante, fosse stato dimenticato o non visto dalla scientifica. Non trovai nulla di rilevante. Il mio aggressore si era dileguato come se non fosse mai esistito. Maddie mi seguì dovunque, per accertarsi che non mi venisse fatto del male e che non mi cacciassi da solo in qualche nuovo guaio.
Per passare il tempo mi incollai al monitor del mio computer di casa. Fu un lunedì sera che John tornò a comunicare con me. Ancora una volta un’icona a forma di lupo cominciò a lampeggiare. Vi cliccai sopra con il mouse e finii per essere indirizzato verso un sito con un ricco archivio di notizie giornalistiche. Tre di queste, in particolare, attirarono la mia attenzione. La prima trattava della sparizione di alcuni fusti di materiale radioattivo recuperato in territorio di guerra dall’esercito e sparito misteriosamente dalla base militare di New Haven. La seconda riguardava la strana morte per polmonite fulminante di un anziano medico di Hartford. La terza era relativa ad una sconcertante catena di decessi di pellirosse a Milwaukee.
Fu allora che mi ricordai degli strani discorsi di John su di un Diavolo e sulla sua mano destra. I tre fatti erano disgiunti gli uni dagli altri, oppure facevano parte dello stesso disegno criminale di una mente diabolica e spietata, pronta ad uccidere chiunque si trovasse ad ostacolarne il cammino? Dopotutto, era esattamente ciò che qualcuno stava facendo con me. Anche i recenti attentati che avevo subito erano da mettere in relazione con queste sparizioni e questi decessi? Ritrovai la piena efficienza fisica proprio in concomitanza con un nuovo susseguirsi di eventi nefasti. Le risposte a queste domande sarebbero arrivate più tardi.